Uno sguardo al significato di labor (da cui l'italiano
'lavoro') in alcune occorrenze di autori latini (e qualche considerazione sulla
"tirannia dell'orologio").
«L'esistenza da "servo" è il contenuto dell'astrazione
"lavoro".Non c'è dunque da meravigliarsi che questo concetto astratto abbia
preso per gli antichi anche il significato di "dolore" e "infelicità" (come in
latino).»
Robert Kurz
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Nel Manifesto contro il lavoro, redatto dal Gruppo
"Krisis", nella sezione 8 (Il lavoro è l'attività di chi si trova in una
situazione di minorità), leggiamo: «Il verbo italiano "lavorare" viene da
"laborare", che in latino significava "vacillare sotto un peso gravoso", e
indicava in generale la sofferenza e la fatica dello schiavo». In realtà, per
essere più precisi, laborare significa "affaticarsi", "affannarsi",
"preoccuparsi per qualcosa", mentre è labare che indica il "vacillare
sotto un peso", "stare per cadere". Fatta questa piccola precisazione, possiamo
partire dalla frase del Manifesto per dare un rapido sguardo all'uso
della parola labor presso alcuni autori latini (con un occhio di riguardo
a Virgilio) e notare come essa assuma frequentemente un'accezione negativa.
Un tentativo di delimitare semanticamente la parola in
questione viene affrontato da Cicerone che, nelle Tusculanae disputationes,
2, 35, così scrive: Labor et dolor sunt finitima omnino sed tamen differt
aliquid: labor est functio qaedam vel animi vel corporis gravioris operis et
muneris, dolor autem motus asper in corpore alienus a sensibus; haec duo Graeci…
uno nomine [pónos] appellant, itaque industrios homines illi
studiosos vel potius amantes doloris [filopónous] appellant, nos
commodius 'laboriosos', aliud est enim 'laborare', aliud 'dolere'.
("Labor e dolor sono due parole molto vicine come significato,
tuttavia, però, qualche differenza c'è: labor indica l'esecuzione di un
compito e di un incarico sgradevole attuata sia mentalmente che fisicamente,
dolor, invece, un qualcosa di spiacevole che si verifica nel corpo,
estraneo ai sensi; i Greci le indicano entrambe con una sola parola
(pónos): perciò chiamano gli uomini laboriosi o, piuttosto, gli amanti
del dolore, filopónous. Noi romani, meglio, li chiamiamo
laboriosos, infatti, una cosa è il laborare, un'altra il
dolere".
Quindi, la parola labor, da cui deriva l'italiano
'lavoro', si situa molto vicino, come significato, alla parola dolor,
'dolore'. Perciò, essere laboriosi (cioè, in italiano, 'lavoratori
tenaci, attivi, determinati', quelli baciati in fronte dal mercato del lavoro)
equivale quasi ad essere, masochisticamente, 'amanti del dolore' (i filopónoi
dei Greci), come tanti patetici penitenti. Cicerone, con la sottile
precisione che lo contraddistingue, tiene a tenere distinti i due significati,
distinzione che - essendo naturalmente molto labile, come abbiamo visto -
altrimenti sarebbe andata perduta.
Nelle commedie di Plauto, labor è frequentemente posto
in bocca agli schiavi, ad indicare, appunto, una delle prerogative del loro
status sociale. Comunque, in Plauto, tale parola indica spesso anche
l'ordito degli inganni messi in atto dagli 'schiavi furbi' della commedia,
quindi, in contesti del tipo "devo caricare sulle mie spalle tutta l'incombenza
della situazione"; si pensi, inoltre, che gli schiavi plautini non affrontano
certo tutte queste peripezie per loro stessi (peripezie che implicano
costantemente una serie di minacce - che vanno dalla tortura alla forca - ad
opera di altri cittadini 'liberi'), quanto per i loro padroni giovani, padroni
che si imbattono in situazioni amorose o d'altro tipo che difficilmente
riuscirebbero a risolvere da soli (un caso isolato e interessante viene offerto
dal Persa: qui, infatti, l'innamorato è uno schiavo, il quale affronta
tutta una serie di travagli non per conto del padrone ma per se stesso).
Passiamo quindi a Virgilio, partendo dalle Georgiche.
Qui, a 1, 145-146, leggiamo: Labor omnia vicit / improbus che, per ora,
tradurremo così: "tutto vince il faticoso lavoro". Come ci informa
l'Enciclopedia Virgiliana s. v. labor, questa massima è sembrata
alla maggior parte degli studiosi - anche tenendo conto di altri passi
all'interno del poema - una lapidaria esaltazione virgiliana del lavoro.
Infatti, già Servio, nel suo commento a Virgilio, forzava il termine
improbus verso un'interpretazione puramente quantitativa, portandolo a
diventare quasi sinonimo di indefessus ("indefesso") e di adsiduus
("costante", "assiduo"). "E', comunque, difficile - prosegue
l'Enciclopedia - eliminare del tutto la valenza negativa, anche
psicologica e morale, dell'aggettivo, quale risulta da altri passi virgiliani.
Se l'attributo, riferito agli animali, è interpretabile come «smodato»,
«smisurato», «ingordo» (Georg. 1, 119 e 388; 3, 431; ma non in
Aen. 12, 250), in rapporto a Enea o ad Amor indica spietatezza,
crudeltà (cfr. Aen. 4, 386 e 412; 12, 261)". Si può concludere, allora,
che labor improbus, in questo caso - implicando il concetto di sofferenza
e di penosità - si avvicina molto al pónos dei Greci che, come ha
annotato Cicerone, genera due concetti distinti nella lingua latina. Possiamo
perciò modificare la traduzione che si era offerta sopra in "tutto vince il
crudele lavoro". Nelle Georgiche, inoltre, il labor è
inserito anche fra le sventure che turbano la vita dell'uomo, significativamente
posto in enjambement: subeunt morbi tristisque senectus / et labor, et
durae rapit inclementia mortis (3, 67-68) ("subentrano le malattie e la
triste vecchiaia / e il travaglio, e ci rapisce l'inclemenza della crudele
morte").
Nell'Eneide, addirittura, il labor viene
personificato e trasformato in mostro infernale, Labos (labos è
una forma arcaica per labor), insieme ad altri terribili mostri; il passo
in questione è 6, 275-77: pallentesque habitant Morbi tristique Senectus / et
Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letumque
Labosque. ("hanno la loro dimora i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia, / la
Paura e la Fame, cattiva consigliera, e la turpe Miseria, / terribili forme a
vedersi, e la Morte e la Sofferenza"). L'acme, il punto finale e pregnante di
questa prima serie di mostruosità infernali è occupato proprio da Labos
(>labor), che darà vita alla parola italiana "lavoro". Che il
concetto di 'tormento', 'profonda sofferenza', sia implicito nell'uso virgiliano
di labor lo dimostra anche un altro passo dell'Eneide, dove si
dice che i morti suicidi tornerebbero volentieri in vita, sopportando qualsiasi
fatica: …quam vellent aethere in alto / nunc et pauperiem et duros perferre
labores! (6, 436-37) ("quanto vorrebbero ora sopportare, nell'alto del
cielo, la povertà e i crudeli affanni!").
Possiamo perciò concludere, con H. Altevogt (in Labor
improbus. Eine Vergilstudie, Münster, 1952, pp. 5-51), che la concezione
virgiliana di labor - insieme, comunque, anche a sporadiche esaltazioni
del lavoro dei campi - si orienta essenzialmente verso un'accezione negativa.
Tanto negativa fino ad assumere connotazioni 'infernali' e decisamente
'malefiche'.
Terminata la rapida analisi dell'utilizzo della parola
labor, si potrebbe ricordare anche il De Otio di Seneca, dove si
palesa la scelta di una vita in solitudine e lontano dagli impegni politici (il
dialogo è infatti databile al 62, nel momento del ritiro dell'autore dalla vita
politica), scelta che era stata solamente sfiorata nei dialoghi precedenti
dedicati all'amico Sereno, il De constantia sapientis e il De
tranquillitate animi. Comunque, il dialogo è più che altro un'esaltazione
del vivere e dell'agire del saggio stoico, in cui l'otium si pone come
scelta forzata, come unica alternativa ad una situazione politica
irrimediabilmente compromessa.
Prendiamo adesso in considerazione il Satyricon di
Petronio; qui, a 26, 9-10, così leggiamo: 'quid vos?' inquit 'nescitis, hodie
apud quem fiat? Trimalchio, lautissimus homo… horologium in triclinio et
bucinatorem habet subornatum, ut subinde sciat quantum de vita perdiderit.'
("Ma come, non sapete da chi andiamo oggi? Da Trimalchione, un uomo di
un'eleganza squisita, che nella sala da pranzo tiene un orologio con tanto di
trombettiere per sapere ogni momento quanta vita ha perduto"). Sta parlando un
servus che invita i protagonisti di questa sezione iniziale del
Satyricon - i viaggiatori squattrinati Encolpio, Ascilto e Gitone - alla
'Cena di Trimalchione'. Nel brano sopra citato fa la sua prima comparsa il nome
di Trimalchione, il liberto arricchito che vive nel lusso più smodato
all'interno della 'degradazione' dei costumi del I secolo dopo Cristo e che non
può non farci pensare ad un personaggio di spicco dell'attuale politica italiana
(e, forse, anche a più di uno). La sua vita, come abbiamo appena letto, è
costantemente regolata da un orologio, cioè è costantemente preda, per usare le
parole di George Woodcock, della "tirannia dell'orologio". Inoltre,
quest'orologio (che, secondo l'ipotesi più probabile, si tratterebbe di un
orologio idraulico, del tipo di quello inventato da Ctesibio e descritto da
Erone e Vitruvio) è dotato di un trombettiere, un servus preposto al
compito di scandire il tempo, cioè una sorta di antesignano del time
keeper dell'industria capitalistica; infatti, così leggiamo nell'articolo di
Woodcock (La tirannia dell'orologio, uscito nel marzo 1944): « "Il tempo
è denaro" divenne uno degli slogan chiave dell'ideologia capitalistica, e
l'addetto al controllo dei tempi di lavoro (timekeeper) fu il più
importante dei nuovi tipi di funzionari introdotti dall'ordinamento
capitalistico».
Ma - teniamo conto di questo - nel Satyricon non si
tratta di un controllo operato sul lavoro, ma su ciò che, più o meno, si
potrebbe definire come 'svago', una cena, un banchetto. Uno 'svago'
situato all'interno di una società, come quella del I sec. d. C., che si
presenta, usando le parole di Marino Barchiesi (L'orologio di Trimalcione
(struttura e tempo narrativo in Petronio) ne I moderni alla ricerca di
Enea, Roma, 1981, p. 132) "remota dall'impegno politico e di scarsa
creatività culturale" (quindi, per certi versi, simile alla nostra). Una società
fondata sullo 'spettacolo', anzi, sullo spectaculum; infatti, così
continua Barchiesi: "Non soltanto l'Urbe accerchia e contempla la corte
imperiale, come se essa fosse un luogo teatrale; non solo l'Urbe è, a sua volta,
palcoscenico d'Italia e del mondo, ma l'individuo (quello che conta o che vuole
contare) vive per vedersi vivere ed essere veduto" (p. 133). La 'Cena di
Trimalchione' (rigorosamente basata sull'ostentazione spettacolare) e la
costruzione caratteriale dell'anfitrione rispecchiano perciò le caratteristiche
strutturali di tale società, in cui anche lo svago, il divertimento, è
rigidamente controllato dalla macchina-orologio, come in un moderno
villaggio-vacanze o in altre forme di 'svago' contemporanee. Ci sembra
interessante citare un'altra frase dal saggio di Barchiesi (dove, a p. 138,
l'orologio viene definito come "carnefice"): "tutta la Cena tende a
proporsi come una macchina, che riduce gli uomini ad automi ed esclude
l'irruzione del caso" (p. 140). La 'Cena', lo svago, l'esibizione del lusso fine
a se stesso e del denaro, si pone sullo stesso piano di una fabbrica, di
un'industria, poiché sortisce lo stesso effetto: ridurre gli esseri umani ad
automi. Ancora, possono venire in mente luoghi contemporanei di 'svago' come
discoteche, villaggi-vacanze e stabilimenti balneari che - come fabbriche -
allineano al loro esterno file infinite di auto parcheggiate e, al loro interno,
tanti corpi sottoposti alla signoria meccanica di diversi 'ritmi'
preordinati.
Per finire, ci sia concesso un non poco considerevole sbalzo
temporale dalla letteratura latina al cinema. Nel film Shining (1980) di
Stanley Kubrick, il protagonista, Jack Torrence (Jack Nicholson) accetta di fare
il guardiano di un grande albergo di montagna - dove si trasferisce con la
famiglia - durante la stagione invernale, in cui l'albergo rimane chiuso. Ma,
causa l'isolamento, ad un certo punto impazzisce e tenta di uccidere la moglie
ed il figlio a colpi d'accetta. Ora, il personaggio in questione è uno scrittore
e, nelle lunghe giornate invernali passa ore ed ore chiuso con la macchina da
scrivere: dopo molti giorni, pagine e pagine si accumulano sul suo tavolo,
sennonché scopriamo che ha scritto infinite volte solamente la frase "il mattino
ha l'oro in bocca". Bene, nella versione originale, tale frase suona alquanto
diversa: "All work and no play makes Jack a dull boy", cioè "il lavoro senza
svago rende Jack un triste figuro". Un triste figuro - forgiato dalla
macchina-lavoro - capace di uccidere ad accettate la moglie ed il figlio. E
scusate se è poco.
Paolo Lago
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